Lingue del fare e lingue del divenire

Articolo lungo quindi sintesi per lettori di fretta

Tradurre dal giapponese, e comunque da qualsiasi lingua, non è mai un’operazione semplice, tipo unire due puntini con una linea, dato che oltre al significato, le parole portano con sé valori, storia e cultura di una società. Il risultato? L’espressività in una data lingua il più delle volte non è riproducibile in un’altra e, senza la dovuta attenzione all’adattamento, si rischiano testi tradotti in maniera poco naturale oppure pesantemente reinventati.

A partire da quest’intuizione, è nata la teoria sulle “lingue del fare” vs “lingue del divenire” del linguista giapponese Yoshihiko Ikegami: una classificazione delle lingue del mondo a partire dal loro modo di descrivere gli eventi e, attraverso alcuni esempi, mostreremo come il giapponese rappresenti la realtà in maniera del tutto peculiare.

Disclaimer (forse non necessario ma mettiamolo): Una teoria è il tentativo di un autore di classificare o spiegare un fenomeno a partire da un qualche tipo di prova, quindi non c’è bisogno di accanirsi se non la si condivide o se si ritiene che le cose vadano differentemente.

Qualche settimana fa la polemica sul nuovo doppiaggio di Neon Genesis Evangelion ad opera di Gualtiero Cannarsi infiammava la rete con post e articoli critici verso traduzioni non sempre funzionali, termini desueti, una sintassi poco scorrevole e adattamenti in rottura con i precedenti lavori.  Come ormai siamo abituati, la risonanza data dai social a questo malcontento ha mosso pure i colossi, spingendo così Netflix verso delle scuse ufficiali e la promessa di un nuovo doppiaggio.

Nella vicenda ritroviamo quello che è l’annoso dilemma di ogni traduzione: conservare, per quanto possibile, il testo e le strutture originali oppure adattare il contenuto, anche a costo di creare ex novo dialoghi e descrizioni?

Leggendo un’opera in una lingua che non è la nostra è infatti cosa comune che i toni delle discussioni, le descrizioni degli stati d’animo, lo scorrere del tempo così come il ritmo delle vicende ecc… possano sembrarci innaturali o persino disorientarci. Difficile quindi pensare ad una traduzione senza adattamento, che non tenga cioè conto di come la lingua d’arrivo sia solita descrivere determinate situazioni.

Dietro questa comune e apparentemente banale esperienza, c’è uno dei punti di partenza della moderna ricerca linguistica (Ferdinand de Saussure mai sentito nominare agli esami?) ovvero l’arbitrarietà della relazione tra un segno/parola e il suo referente esterno: ogni lingua può descrivere scegliendo quali, come e quanti aspetti prendere o meno in considerazione. Quindi ad ogni tentativo di traduzione bisognerà aver bene in mente, prendendo a prestito le parole di Eugenio Coseriu, che le lingue parlino delle stesse cose ma non dicano le stesse cose.

Lo studio delle modalità con le quali le lingue codificano il mondo è al centro della cosiddetta “linguistica tipologica”, una branca della ricerca che mira ad individuare dei parametri, o tipi, per classificare e predire il comportamento di lingue tra di loro molto diverse.

Tra queste teorie, una molto celebre in Giappone ma non troppo conosciuta all’estero, parte proprio dallo studio dell’espressività tipica della lingua giapponese a confronto con l’inglese e le lingue romanze: si tratta della cosiddetta teoria delle “lingue del fare e lingue del divenire”.

Pubblicata nel 1981 dal linguista e semiologo Ikegami Yoshihiko nel saggio「するとなるの言語学Suru to Naru no gengogaku [La linguistica del fare e del divenire] poi tradotto in inglese nel 1991, la teoria propone l’esistenza di due poli nella rappresentazione della realtà: quello delle “lingue del divenire” (なる的言語 Naru-teki gengo), rappresentate dal giapponese, dove gli eventi sono descritti come un flusso continuo, impersonale e centrato sull’evoluzione dell’azione e le “lingue del fare” (する的言語 Suru-teki gengo), come l’inglese, dove la centralità è sull’agente/soggetto, le sue azioni e il punto di arrivo.

Userò volontariamente un linguaggio poco specialistico per mostrare come questo si realizzi a vari livelli, senza però andare troppo negli aspetti più complessi.


Sulla scena o su chi fa l’azione? Dove va l’attenzione.

Come prima caratteristica, nello scegliere dove concentrare il focus, le lingue del divenire tendono a concentrarsi sui graduali mutamenti della scena grazie ad un lessico ricco di verbi dedicati a questo tipo di descrizioni.

In giapponese, ad esempio, ci sono verbi come 「春めく」harumeku, che letteralmente significa “diventare primavera”, o 「夕さる」saru per dire “venire sera”, intraducibili a meno di perdere la sensazione di transizione.

Inoltre, il verbo なる naru “diventare” è utilizzato per qualsiasi espressione che sottolinei un cambio di stato, sia esso legato ad eventi naturali o addirittura nato dalla volontà di un individuo.

Come per esempio in:

  • 台風のためイベントが中止になりました。

Taifu no tame ibento ga chūshi ni narimashita (A causa del tifone, l’evento è -lett.- diventato sospeso )

  • 急遽出張することになりました。

Kyuugeki shuccho suru koto ni narimashita (È’ stato deciso all’improvviso che – lett. “è diventato” – devo andare in trasferta)

Vediamo inoltre, sempre in quest’ultima frase, come l’agente della decisione sia sotto inteso e il focus sia tutto sulla scena e sul “cambiamento”.

Al contrario, le lingue del fare avranno il loro focus fisso sulle azioni e il loro risultato anche in verbi impersonali come piove o bisogna, nei quali il riferimento è alla condizione finale senza accenni al cambiamento di stato.


Sparire o essere al centro dell’attenzione: il ruolo del soggetto

In giapponese, caratteristiche quali la mancanza di articoli, la quasi assenza di genere e numero, il verbo che presenta una solo forma per tutte le persone, rendono vaga l’identificazione del soggetto che compie l’azione senza un contesto di riferimento (Ikegami la chiama non-discrete representation).

Quando si inizia a studiare giapponese, si impara infatti sin da subito che 「食べる」taberu, scritto così senza un riferimento concreto allo scenario dell’azione sarà “Io mangio”, “tu mangi”, “egli mangia” ….ma anche “mangerò”, “mangerai” ecc… Considerando anche la possibilità di sottintendere il pronome personale, l’agente della frase in giapponese resta ancora più nascosto tra le pieghe del discorso.

Al contrario delle lingue europee dove, specialmente nella famiglia romanza, la ricca coniugazione verbale, la presenza di pronomi, genere e numero, definiscono con precisione l’identità dei partecipanti all’azione come in “mangio, mangerebbero, mangiaste ecc..” (quello che Ikegami chiama discrete representation del soggetto).


Esserci o avere: la rappresentazione del possesso

Peculiare per i due poli linguistici è anche l’espressione delle relazioni di possesso. Mentre l’inglese e l’italiano hanno un verbo specifico come avere/to have per designare l’azione, il giapponese invece utilizza comunemente espressioni che impiegano il verbo di stato 「有る」aru, esserci (「持つ」motsu è un altro verbo di possesso ma più utilizzato con l’idea di “avere qualcosa in mano”).

Così, mentre nelle lingue del fare, il possedere è un’azione vera e propria, in giapponese il possesso di qualcosa viene descritto come uno stato, con un focus che è sulle caratteristiche impersonali della scena.

Per fare un esempio, una frase che in italiano e inglese che impiega il verbo avere/to have come:

Marco ha due bambini / Mark has two children

In giapponese diventa

マルコ(に)は子供が二人いる Marco ni wa kodomo ga futari iru; letteralmente: “A Marco ci sono due bambini”.

Ikegami fa notare inoltre come in giapponese le espressioni del possesso ricalchino quelle di stato in luogo: è infatti possibile dire, allo stesso modo di prima, Nella piscina ci sono due bambini come プールには子供が二人いる Puuru in wa kodomo ga futuri iru.


Fotografia o film: la rappresentazione del moto

L’ambito principale nel quale il contrasto tra i due poli si manifesta è senza dubbio la rappresentazione del movimento spaziale.

Come è facile immaginare, dal lato delle lingue del fare, descrivere qualcosa che si muove significherà mettere in evidenza il soggetto, l’azione nel suo risultato finale: prendendo in prestito le parole di Ikegami, parlare di moto in questo caso sarà da intendersi come “locomozione”.

Dal lato delle lingue del divenire, al contrario, il moto è inteso come “transizione”: la presenza del soggetto verrà in secondo piano a favore dei dettagli sull’evoluzione della scena e i vari stadi che portano verso il punto di arrivo.

Con un’efficace metafora, potremmo dire che mentre in giapponese si propone il “film” di un’azione, le lingue europee ne propongono una “foto”.

Come questo si realizzi, lo vediamo con alcuni esempi tratti dal romanzo ノルウェーの森 Noruwee no mori / Norwegian Wood di Haruki Murakami, mettendo fianco a fianco testo originale e le versioni tradotte (italiano e/o inglese).

Sotto un breve passo che descrive l’allontanarsi in volo di una lucciola:

そしてその光の線が風に滲むのを見届けるべく少しの間そこに止まってから、やがて東に向けて飛び去っていった。

Soshite sono hikari no sen ga fū ni nijimu no o mitodokeru beku sukoshi no aida soko ni tomatte kara, yagate higashi ni mukete tobi satte itta.

______

Letteralmente: Poi dopo essersi fermata un poco nello spazio di tempo nel quale la sua scia di luce arrivava a confondersi con il vento TOBI-SATTE-ITTA [“Volando, si allontanò e se ne andò”] volgendosi ad est.

And then, after hovering there for a few seconds as if to watch its curved line of light blend into the wind, it finally flew off to the east.
Restò ferma lì per un po’a guardare la sua scia di luce confondersi col vento, poi finalmente si allontanò in volo, in direzione est.

Facile accorgersi di come, grazie ad una costruzione fatta di tre verbi, la versione originale comunichi il volo nelle sue delicate ed indefinite dinamiche quasi a rendere visiva la scena dell’insetto che si allontana.

Al contrario, in italiano ed inglese, la traduzione conserva un solo verbo che, anche se accompagnato da nomi o preposizioni, trasmette l’immagine della scena nel suo momento finale (l’insetto che se ne va). Le costruzioni tra più verbi, anche se non l’unica risorse espressiva che il giapponese ha, sono centrali nella descrizione del movimento, come confermano gli esempi successivi:

人々が通り過ぎていくのを僕はその間ぼんやりと眺めていた。

[Osservando nel frattempo la gente che “TOORI SUGITE IKU”= Passando,Superando, va via]
Osservando nel frattempo la gente di tutti i tipi che passava davanti alla vetrina.

 

風だけが我々のまわりを吹きすぎていった

[Solo il vento “FUKI SUGITE ITTA”= Soffiando, ci superò e andò]
L’unica cosa che si muoveva attorno a noi era il vento.

 

Sia nel primo che nel secondo caso, possiamo dunque la sequenza dei verbi come se fossero dei fotogrammi: un’espressività così vivida ma impossibile da rendere in italiano dove l’unico verbo non rende nulla dell’evocatività della scena originaria.

Infine, Ikegami osserva come questi due modelli di moto (locomozione/transizione) siano talmente pervasivi nelle rispettive lingue, da essere presenti anche all’esterno del dominio dello spostamento spaziale.

Per esempio, in inglese, i verbi di movimento sono spesso scelti per comunicare cambi di stato come in:

The vase went into pieces, The well ran dry, John fell ill, The string came untied…

Mentre la traduzione in giapponese richiede il verbo なる naru (diventare) come ad esempio:

The vase went into pieces >> 瓶はバラバラになった Bin wa bara bara in natta  (lett. Il vaso è diventato in pezzi)

oppure

John fell ill >> ジョンさんは病気になった John wa byōki in natta (lett. John è diventato malato)

In maniera opposta ma speculare, in giapponese i verbi di cambi di stato sono utilizzati per espressioni di moto spaziale, come ad esempio avviene nella forme onorifiche:

先生はお歩きになった Sensei wa o aruki ni natta (Il maestro si mise in cammino)

La teoria di Ikegami, ha offerto un punto di vista inedito su un aspetto fondamentale per chi studia o lavora su lingue straniere: ognuna avrà un proprio modo di descrivere il mondo con grandezze e punti di riferimento impossibile da ignorare e complesso da mantenere quando si passa da una lingua all’altra.

La sfida della traduzione è proprio nel bilanciare questi due aspetti.

Come titolava una famosa opera di Umberto Eco di qualche anno fa, tradurre è infatti dire quasi la stessa cosa: importante è evitare voler creare a tutti i costi un rapporto 1:1 tra i testi, ma piuttosto sviluppare una sensibilità verso i riferimenti culturali, le caratteristiche grammaticali e le strutture ricorrenti di una lingua garantisce una guida nell’adattamento dei contenuti al contesto d’arrivo. Sensibilità che, al giorno d’oggi, difficilmente potrà essere delegata ad una macchina.

E per te, che impressione hai avuto nel leggere un’opera in lingua originale o qual è la difficoltà maggiore incontrata in una traduzione?

Fabiana

100% made in Umbria, ora di casa a Milano, dal 2004 che studio, parlo e qualche volta traduco giapponese.Ho un PhD in linguistica del quale vado fiera e, se volete farmi felice, chiedetemi di spiegare come ogni lingua interpreti il mondo.

6 Comments
  1. Molto interessante. Non avendo che poche nozioni scolastiche di linguistica non avevo notato gli aspetti descritti nell’articolo. O meglio: non ne ero cosciente ma avevo percepito che dietro c’era più di una semplice prospettiva diversa da cui vedere (e descrivere) il mondo.
    Prendendo uno degli esempi del post in effetti in italiano esiste il raro verbo “imbrunire” per dire si fa sera e il corrispondente sostantivo che dà l’idea del divenire.
    Grazie degli spunti.
    PS: studio da un anno giapponese emi accorgo quanta strada mi manchi ancora.

  2. Ciao Daniela e grazie per il tuo commento. Condivido l’osservazione: in italiano ci sono pure “arrossire” o “albeggiare” che possono dare l’idea del cambio di stato ma non le altre caratteristiche tali a qualificarla come “lingua del divenire”, sempre secondo l’autore.
    Accorgersi così di come ogni lingua abbia una propria visione del mondo, rende più affascinante studiarla e questo non deve intimorire ma semmai dare la motivazione a continuare …Ganbatte Kudasai!

  3. Grazie dell’articolo, veramente illuminante, che ha confermato in modo autorevole, preciso e scientifico certe mie impressioni o perplessità. Anch’io sto cercando di imparare il giapponese e la (sostanziale) assenza di pronomi personali e desinenze personali dei verbi mi lascia alquanto perplessa. Mi ero accorta, in effetti, che l’accento non è tanto sul chi fa qualcosa, ma su ciò che accade.
    La traduzione, in generale, è un campo a sé che ultimamente viene molto studiato, credo. Ma la traduzione dal giapponese deve essere una lotta particolarmente dura e leggere un romanzo giapponese, anche ben tradotto, richiede al lettore un notevole tour de force mentale. Sto rileggendo (per la terza volta!) Il pese delle nevi nella, mi pare, bella traduzione di Giorgio Amitrano, ma i personaggi continuano a farmi un po’ l’impressione di marziani 🙂

    1. Ti ringrazio molto per il commento e per gli interessanti spunti di riflessione sulle difficoltà che può incontrare anche chi legge in traduzione. 🙂

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