Resoconto della serata: commedia (o meglio, dramedy) psichedelica in salsa JPunk/Rock, sake come se piovesse e sculture di caramelle. What else?
Dunque, in una settimana abbiamo avuto ben due film giapponesi al cinema e due recensioni (ed entrambi i film, tra l’altro, con la stessa protagonista femminile: Atsuko Maeda).
Vi ho già parlato del film Tokyo Love Hotel, nelle sale italiane (non so per quanto ancora, ma se volete vederlo, vi conviene affrettarvi!), oggi invece torniamo a un classico dell’estate romana, l’Isola del Cinema che da 8 anni dedica un paio di serate al cinema giapponese. Il film che ho visto quest’anno è un’uscita recentissima, del 2016, con la regia di Shuichi Okita.
MOHICAN COMES HOME (Mohican Kokyo ni Kaeru モヒカン故郷に帰る)
(2016) Regia di Shuichi Okita. Interpreti: Akira Emoto, Atsuko Maeda, Ryuhei Matsuda, Masako Motai.
Band Death Metal e bande scolastiche, una famiglia eccentrica unita dall’amore per la musica (e per il non-sense). Voto ***.
Il moicano torna a casa: 7 anni dopo essere migrato a Tokyo per tentare la carriera di musicista in una band death metal, Eikichi (Ryuhei Matsuda), decide di tornare a casa, al paesello natio situato in un’isoletta un po’ sperduta del mare interno di Soto, al largo di Hiroshima, portando con sé la sua ragazza Yuka (Atsuko Maeda), incinta, per informare la famiglia della novità. Novità che saranno accolte in maniera alquanto bizzarra, con il padre Osamu, direttore della banda del liceo del paese, che evidentemente non prende granché bene la notizia dando al figlio del buono a nulla, per poi decidersi a organizzare una festa con tutta la piccola comunità per festeggiare il ritorno a casa del figlio. Purtroppo, si scoprirà presto che Osamu è malato di cancro ai polmoni, ormai incurabile, e Eichiki decide quindi di rimanere più tempo con la propria famiglia, e accompagnare il padre in questo percorso, cercando di accontentarlo nei suoi desideri.
Il film riesce a tracciare con estrema delicatezza e ironia un momento drammatico della vita di una famiglia, mantenendo un tono scanzonato per la sua intera durata, e alleggerendo in questo modo la tensione. Chiunque abbia avuto a che fare con un parente o un genitore malato di cancro, sicuramente potrà capire: la paura, lo sconforto, il rifiuto, con la speranza di trovare in altro una possibile cura (un altro dottore, un altro ospedale, cure alternative a base di tisane o intrugli vari). Eppure il merito di questo film è proprio quello di riuscire sdrammatizzare il tutto, alternando momenti comico-grotteschi a ad altri commoventi, sempre con un tratto leggero e senza cadere nel sentimentalismo.
È sicuramente la cifra stilistica del regista, che nelle sue storie cerca di dare una vena eccentrica a ritratti famigliari, riuscendo a bilanciare in un (quasi) perfetto equilibrio dramma e commedia, sofferenza e risata, esattamente come nella vita stessa, nel nostro costante susseguirsi di eventi felici ed eventi tristi. E alla fine di tutto Osamu e Eikichi, fulcro attorno cui ruota l’intero film, non sono altro che due lati della stessa medaglia, quella della grande passione per la musica che rappresenta il vero ponte di congiunzione tra i due.
Il difetto del film, come di molti altri film contemporanei giapponesi, è l’eccessiva lunghezza: 2 ore, a mio modesto parere, sono troppe per una commedia e il rischio, concreto, è quello di perdersi in dettagli superflui e reiterare momenti e concetti all’infinito, portando a un calo dell’attenzione. Rimane tuttavia un film piacevole da guardare, toccante e mai banale, forse un po’ ai limiti dell’assurdo, ma che con leggerezza è in grado di ritrarre uno spaccato di vita familiare, riconoscibile dalla maggior parte di noi, inserendola in un contesto particolare, e contrapponendo quel Giappone rurale, sempre più lontano, con quello moderno della metropoli, di Tokyo.