Nei konbini in Giappone risuonano sempre mille rumori. Dal trillo all’ingresso che annuncia l’arrivo dei clienti alla voce cantilenante di una star della TV che pubblicizza nuovi prodotti e si diffonde nel negozio attraverso gli altoparlanti. Dal saluto dei commessi che accolgono i clienti gridando a perdifiato ai bip dello scanner alla cassa. Il tonfo dei prodotti sul fondo del cestino della spesa. Il ticchettio dei tacchi sul pavimento. Una miriade di suoni che si fondono tra loro e si insinuano dentro di me senza sosta: è la musica del konbini.
La musica del konbini scandisce l’esistenza di Furukura Keiko, una donna di 37 anni che da 18 svolge un lavoro part-time in un konbini, i convenience store aperti 24 ore su 24, 7 giorni su 7, diffusi in maniera capillare in Giappone.
Il #LibroGiappone di questo mese è dedicato al romanzo La ragazza del convenience store, di Murata Sayaka, edito da Edizioni E/O e tradotto dal giapponese da Gianluca Coci.
Una lettura che scorre veloce, mettendo a nudo molti tratti scomodi della società giapponese, trasposta nel microcosmo del konbini: una realtà fatta di procedure da rispettare e turni massacranti, per un lavoro tendenzialmente considerato da “sfigato”, un lavoretto da studente, o per chi si trova fondamentalmente ai margini della società (vedi gli stranieri immigrati in Giappone).
La protagonista, Keiko, possiamo considerarlo un personaggio fuori dalla norma, incapace di comprendere il mondo delle relazioni sociali che la circonda, viene considerata fin da bambina “strana”, e non in grado di uniformarsi alle aspettative sociali. Non sposata, senza figli, e ancorata a quel lavoretto part-time iniziato durante gli anni universitari, che per lei ha rappresentato una sorta di rinascita e le ha permesso finalmente di trovare un suo posto nel mondo, un luogo in cui è sufficiente attenersi al “manuale” per essere perfettamente inserita nel contesto, recitando la parte della commessa perfetta.
Per lei tutto diventa finalmente semplice e chiaro: sa quando deve sorridere, cosa deve rispondere, ha delle regole chiare da seguire, per poter essere finalmente considerata “normale”.
Keiko non riesce a conformarsi alle aspettative che società e famiglia hanno su di lei, eppure comprende perfettamente quanto i suoi atteggiamenti, la sua mancanza di empatia e personalità, costituiscano un problema da cui è necessario guarire, e pertanto si sforza di tenere per sé la sua visione del mondo, e di “recitare” il ruolo che gli altri vorrebbero per lei.
「出る杭は打たれる」
Il paletto che sporge va battuto
Durante la lettura del romanzo, ci pensavo spesso. Questo proverbio racconta molto della società giapponese, una società in cui l’importanza del gruppo sovrasta quella dell’individuo, della sua specificità, che deve essere funzionale al gruppo, ma mai emergere troppo. La diversità, pertanto, è spesso considerata un “male”, da cui è necessario “guarire”.
La difficoltà dell’essere diversi dalla norma, quando il mondo vuole che ci adeguiamo a determinate aspettative sociali. È questo ciò di cui ci parla il romanzo: uscire fuori da questi schemi equivale a essere una sorta di pedina impazzita che mette a rischio gli ingranaggi che muovono la società, e ciò determina la necessità di essere nuovamente incasellati, rientrare negli standard.
Ora che finalmente Shiraha non è più tra i piedi il konbini ritrova la pace di prima. C’è energia positiva nell’aria, voglia di fare: l’elemento di disturbo è stato eliminato, sono tornate la serenità e l’allegria.
Dunque, eliminato l’elemento di disturbo, si può finalmente ristabilire l’armonia del gruppo, in cui ognuno è parte integrante del perfetto ingranaggio che regola la società.
In questo romanzo ho trovato davvero tanto Giappone, che va oltre i soliti stereotipi legati a questo paese. Certo, il tema delle aspettative sociali sul singolo è universalmente valido, ma trovo che abbia un maggiore impatto in una società così incentrata sull’importanza e l’armonia del gruppo come quella giapponese, dove la pressione sull’individuo diventa quasi una sorta di morsa soffocante.
C’è speranza per Keiko?
Le persone che la circondano non sono preoccupate di comprendere quali siano le effettive cause della sua stranezza, le sue problematiche (che probabilmente rientrano tra i disturbi dello spettro autistico), la sorella e i genitori desiderano semplicemente che “guarisca”, permettendo finalmente loro di tirare un sospiro di sollievo, e vederla magari sistemata (persino con un personaggio problematico come Shiraha, che potremmo considerare un vero parassita sociale).
Keiko sa di rappresentare un elemento disturbatore al regolare funzionamento delle cose, da qui nascono i suoi sforzi per cercare di essere finalmente parte di quella società che tenta di ostracizzarla, sebbene, in fondo, tutto ciò che lei desidera è vivere la sua vita tranquillamente, cadenzata dal ritmo e dai tempi del konbini.
Vi segnalo questo interessante articolo dedicato al romanzo e all’universo dei konbini: I konbini sono l’anima nascosta del Giappone.
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Anche lo scrittore olandese Cees Nooteboom nel suo libro “Cerchi infiniti” (trad. it. Iperborea, 2017) sottolinea molto il concetto di gruppo, di muoversi in gruppo. Questa è davvero una grande differenza rispetto alla cultura occidentale che invece ha da sempre dato molto peso all’individuo. Tutto il pensiero moderno e soprattutto il liberarlismo sottolineano l’importanza di garantire e salvaguardare le libertà individuali: il sostantivo libertà e l’aggettivo individuali almeno dal ‘600 per noi vanno sempre insieme. Mi chiedo: quando noi occidentali, forniti tutti di questo retroterra intelletuale, ci appassionioamo al Giappone non sarà che finiamo per costruirci un nostro Giappone finto, depurato di tutto ciò che non possiamo condividere perché fa a pugni con il nostro DNA culturale? Non rischiamo di amare e parlare di un Giappone idealizzato a cui abbiamo voluto togliere quello che è invece parte importante delle sue radici e che fa a pugni con le nostri radici? Ma questo nostro comportamento non finisce per essere una forma di adattamento a nostro uso e consumo, un travisamento, un episodio rinnovato del “Giapponesismo” come quello che faceva furore in Europa tra fine ‘800 e inizio ‘900? Non dovremmo ammetterlo con coraggio e dire: il Giappione ci appassiona, ma solo questo e quello e non quell’altro?
Ciao Pierfranco, ti ringrazio davvero tanto per questo tuo commento così ricco e ben articolato. Mi offri un ottimo spunto di riflessione. Partendo dalle nostre differenze culturali credo anche io sia per noi quasi impossibile accettare in “toto” il Giappone. Però a ben riflettere, esistono paesi che possiamo accettare in toto? Certo, parlando per l’Europa, le comuni radici europee ci fanno sentire vicini e simili, ma le differenze sono sempre ben radicate ed evidenti.
Posso non comprendere alcuni aspetti culturali intrinsechi alla società giapponesi, ma posso realmente giudicarli sulla base del mio DNA culturale, come lo definisci? Chi dice che il mio sia meglio del loro?
Anche sull’argomento gruppo/individuo, mi sono soffermata varie volte a riflettere, la concezione del gruppo in Giappone lo ha reso ciò che è, anche negli aspetti che più apprezziamo noi occidentali (la società perfettamente funzionante), ma a che prezzo? E l’individualismo selvaggio imperante in Occidente, a cosa ci conduce? Penso all’Italia, nello specifico, e vedo solo egoismo e chiusura.
Insomma, non ho una reale risposta, concordo sul fatto che probabilmente oggi stiamo vivendo un nuovo Japonisme, in cui prendiamo solo gli aspetti che più ci piacciono, quelli legati alla tradizione, alla bellezza culturale ignorando tutto il resto, e di fatto idealizzando un paese che non esiste. Ma è vero anche il contrario, chi demonizza il Giappone evidenziandone solo gli aspetti negativi, dimenticando che ogni paese ha scheletri nell’armadio e problemi che non sa o non vuole affrontare.
Ciao, sto leggendo alcuni dei tuoi articoli e mi stanno piacendo molto molto. I combini giapponesi oltretutto su di me hanno sempre sortito uno strano e inspiegabile fascino, quindi un romanzo che vi è così legato mi aveva attirato a prescindere: non ho (ancora) vissuto in Giappone, ma oltre ad averlo visitato sono tanti anni che leggo e mi interesso a questa cultura e ci ho ritrovato tanti suoi aspetti (in primis la questione del rapporto singolo/individuo/armonia-pressione che ben evidenzi), oltre a una prosa coinvolgente e una storia che mi ha interessata molto.
Ciao Giulia, ti ringrazio tanto e benvenuta da queste parti 🙂
Già, questo piccolo romanzo è un vero concentrato di cultura giapponese, la trama forse è poco sviluppata, così come i personaggi, ma le tematiche affrontate offrono davvero diversi spunti di riflessione sulla società giapponese, sull’omologazione e la pressione sociale a seguire determinati percorsi già stabiliti, sul concetto di normalità. Mi è piaciuto molto, devo dire 🙂
A presto e grazie ancora!